prima pagina pagina precedente


RICORDI
Avevo otto anni…
… da Fiume a Monza
Paolo Sandrini sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


a Fiume

Paolo Sandrini (a destra) con il padre Anselmo e il fratellino Guido

In un'automobile scassata e piena di valigie, stretto tra mio padre e mia madre insieme al mio fratellino guardavo, attraverso il finestrino posteriore, la casa in cui ero nato e cresciuto che si allontanava, che diventava sempre più piccola.
Mio padre e mia madre piangevano; io non comprendevo bene, ma capivo che qualcosa di tragico, di definitivo stava avvenendo.

Lasciammo così Fiume, volontariamente, perché, lo compresi dopo, non potevamo più vivere nella nostra città, insieme ai parenti, agli amici, a tutto ciò che fino ad allora era stato il nostro mondo, ma la lasciammo anche per scelta, una scelta per poter vivere liberi, perché volevamo rimanere Italiani.

Da Fiume andammo prima a Trieste, presso lontani parenti, e da lì ancora in un paese vicino Vittorio Veneto.
Vivevamo presso una famiglia di contadini, ed anche se fu un periodo molto duro, lasciò un ricordo fisso nella memoria, pieno di piccoli particolari ormai quasi sbiaditi.
Le cene frugali, con una grande polenta, tanta insalata ed un pezzo di formaggio, poco, agli uomini di più, poi ai bambini, poi alle donne, per la dieta si direbbe oggi, invece perché non ce n'era.
Le sere passate con i contadini intorno al camino, con le donne a far la maglia, gli uomini con un bicchiere di vino, i bambini a giocare con niente, fino a che arrivava il sonno. Poi a letto, in un letto ghiacciato, che si cercava di riscaldare con un mattone che era stato messo vicino al camino.
Al mattino andavo a scuola; mio fratello faceva la seconda ed andava con i figli dei contadini alla scuola elementare nel paese che distava due chilometri.
Nel paese c'era la scuola elementare fino alla terza.
Io frequentavo la quinta e dovevo andare a Vittorio Veneto, cinque chilometri all'andata e cinque al ritorno, a piedi, per un intero anno scolastico, da solo, perché i figli dei contadini andavano a scuola fino alla terza e poi si mettevano a lavorare.
Mio padre non c'era mai, era sempre in giro per l'Italia a cercare di lavorare per portare a casa qualche soldo, mia madre si ammalò e finì all'ospedale.
Anche la mucca si ammalò perché aveva mangiato troppa erba medica e si gonfiò tutta: anche questo fu per i contadini un fatto grave, perché per la povera gente una mucca era molto importante, faceva quasi parte della famiglia.
Così per un anno vissi la vita dei contadini, lavorai con loro nei campi, per quel poco aiuto che poteva dare un bambino con le mani con la pelle troppo delicata, in un lavoro dove servono mani grosse e ruvide, mani come badili.
Due buoi con un giogo di legno che tirano un aratro, la vacca che partorisce, l'uccisione del maiale, c'ero anch'io, tenevo il codino, le pannocchie di granoturco abbrustolite e sgranocchiate, la prima comunione in una chiesa di campagna dove io, perché ero il cittadino, dicevo ad alta voce la preghiera…

Così passò un anno.

Poi mio padre, che era dipendente comunale a Fiume, ottenne l'assegnazione di un posto: scegliere tra Porto Recanati e Monza.

Mio padre scelse Monza e così sono qui.
Fummo fortunati perché anziché andare al campo profughi che c'era in Villa Reale, mio padre riuscì ad avere due locali, senza servizi, presso il tribunale in piazza Garibaldi, dove alloggiavano, in condizioni più o meno precarie, alcuni giudici con le famiglie.
Alla domenica si giocava al pallone nel cortile del Tribunale, la palla finiva spesso nella fontana, a cadere sul ciottolato ci si faceva male, ma era bello.
Ci siamo integrati, anche se non è stato facile, ma certamente siamo stati privilegiati e fortunati.

Non è stato lo stesso per le diecine di migliaia di esuli che lasciarono Fiume e l'Istria: sparpagliati per l'Italia, confinati in campi profughi, oggetto di una politica discriminatoria, hanno dovuto lottare per il diritto ad essere Italiani come tutti, colpevoli forse di non essere finiti nelle foibe, così da non creare problemi.

Mio padre non tornò mai più a Fiume: la sua città non esisteva più, se non nei suoi ricordi, la città che ora esiste è un'altra città, perché gli originari abitanti l'hanno lasciata, perché è stata attuata una politica di slavizzazione, perché sono rimasti solo i vecchi per morirvi.

Mio padre morì nel 1972.

Due anni dopo lo Stato Italiano indennizzò i beni abbandonati agli eredi, praticamente con un'elemosina.

Sono passato, anche se per poco, ma come tanti della mia età, attraverso una guerra.
Sono passati tanti anni, ma certi ricordi rimangono nella memoria.
Le scelte di mio padre hanno segnato il mio destino, il mio pensare, la mia vita, ed io lo ringrazio e ne sono fiero.

Paolo Sandrini


in su pagina precedente

 5 aprile 2003